L'inventario del guardaroba e scelte etiche nel vestire

L’inizio anno è il momento ideale per fare un giro per la casa e selezionare oggetti da buttare/donare (decluttering). Tra il 25 e il 26 e stamattina ho fatto una nuova ricognizione nell’armadio ad analizzare ciòche stava da parte, con l’obiettivo di a) far ruotare di più i capi indossati e b) donare quanto non usato per vari motivi.

Complice la lettura di Siete pazzi a indossarlo e poi di The conscious closet, entrambi di Elizabeth L. Cline, mi sono interrogato sulla provenienza dei miei capi, sull’impatto sociale e ambientale delle mie abitudini in termini di abbigliamento. Per quanto cerco di comprare solo ciòdi cui ho bisogno, comprarlo quando ne ho bisogno, usarlo al meglio, lavarlo e conservarlo per farlo durare, ho scoperto di essere ben lontano dalla perfezione (ma guarda!). Ho proceduto questa mattina a un inventario per capire quali capi ho, da dove vengono, dove li ho comprati, se li uso veramente e di quali fibre sono composti.

L’inventario

La lista è lunga e l’ho scomposta come segue:

  • T-shirt: 25
  • Polo 4
  • T-Shirt manica lunga: 5
  • Felpa: 5
  • Maglione: 5
  • Camicia: 7
  • Tuta: 1
  • Calzoncini (inclusi 3 boxer mare): 12
  • Pigiama: 2
  • Giacca: 6
  • Giacchetto: 7
  • Pantaloni: 7
  • Completo: 1

Il totale è di 88 pezzi, di cui 68 usati (77%) e 20 non frequentemente come potrei. Di questi ne ho comprati:

  • Negozio fast fashion (Zara, Uniqlo, OVS, H&M): 54 (61%)
  • Negozio sportivo (Champion, Nike): 11
  • GDO (Coop): 3
  • Altra provenienza (negozi, mercatini): 20

Nell’altra provenienza ci sono molte t-shirt comprate in viaggio, spesso come ricordo. La quasi totalità dei miei capi viene quindi da negozi fast fashion, con tutte le conseguenze del caso: prezzi bassi, ma lavoratori sottopagati e alto impatto ambientale della produzione e delle materie prime. A proposito di fibre, leggendo tutte le etichette, ma proprio tutte, ho scoperto che anche capi che pensavo fossero di cotone, non lo erano al 100%. Poliestere è la fibra che occupa circa la metà del mercato dei tessuti ed è ben rappresentata anche nel mio armadio, ma domina il cotone:

  • Cotone: 52 (capi) (più molte t-shirt di cui non ho tenuto il conto preciso)
  • Poliestere: 23
  • Viscosa: 6
  • Nylon: 6
  • Elastene: 6
  • Lana: 3
  • Acrilico: 2

La provenienza dei paesi è ciòche mi ha più colpito. Nel mio armadio c’è merce proveniente da ben 22 paesi. Solo nel caso di tre paesi (Messico, Brasile, Grecia), oltre all’Italia, ho comprato capi prodotti localmente. Tutto il resto da ogni continente. In ordine di frequenza:

  • Bangladesh
  • Cina
  • India
  • Turchia
  • Messico
  • Cambogia
  • Romania
  • Thailandia
  • Portogallo
  • Honduras
  • Brasile
  • Vietnam
  • Hong Kong
  • Italia (2 su 87!)
  • Indonesia
  • Tunisia
  • Bielorussia
  • Pakistan
  • Bulgaria
  • Nicaragua
  • Australia
  • Grecia

Dall’inventario di oggi ho preso la decisione di eliminare (donare) altri 6 capi (di cui 5 T-shirt), così da far scendere il mio numero di capi con cui comincio il 2020 a 82.

Prossimi passi

Dal secondo libro ho scoperto il concetto di capsule wardrobe, ovvero un numero limitato di capi che compone un guardaroba essenziale. Approfondirà il tema per greare un mio personale capsule wardrobe e ho già capito che non devo cominciare da zero, perchéintuitivamente sono già in parte sulla buona strada.

Nuovi eventuali acquisti, se necessario, dovranno rispondere a questa logica. Dove comprare sarà il primo problema, perché sono stato abituato a frequentare Zara, H&M, OVS e non saprei dove altro rifornirmi localmente, ma ciònon significa che non sia possibile trovare delle alternative o cominciare a studiarle. Moda sostenibile esiste, con vari brand citati anche nel libro (purtroppo solo americani, visto che il libro è americano), va fatto lo sforzo di cercarla, anche online, e di spendere qualcosa in più, ripagati in maggiore qualità.

Dalla lettura ho imparato anche a fare maggiore attenzione alle fibre dei capi, alle cuciture, alla provenienza, oltre che al prezzo e allo stile. Come per altre scelte, la comodità e la convenienza portano alla via più breve, ma non per questa si tratta della scelta migliore, dal punto di vista etico e personale e da quello sociale/ambientale. Ci vuole uno sforzo in più. Continuare a consumare meno e soprattutto meglio. Non è impossibile, ma bisogna crederci e volerlo.