Uno dei mali del nostro tempo, per me è il rischio di omologazione. Ovvero il rischio di sviluppare il gusto e il punto di vista che hanno tutti, leggendo gli stessi libri, guardando le stesse serie TV, seguendo le stesse fonti, frequentando gli stessi ambienti. Con lo streaming video e il social web ci sembra di seguire un percorso tutto nostro, personalizzato. In parte è vero. Anche quando è vero però, nella maggior parte dei casi chi influenza ciò che ci viene proposto è un algoritmo che si basa sui nostri comportamenti precedenti. Il risultato è che la proposta che abbiamo è simile a quanto abbiamo già visto, letto, ascoltato e che ciò che viene aggiunto di diverso non è per farci variare il punto di vista, ma per imporci un prodotto che la piattaforma spinge per suo interesse diretto.
L’effetto finale di tutto ciò è che incarniamo, senza rendercene conto, il punto di vista e i valori che la piattaforma abbraccia. Se non è la piattaforma è un editore/distributore/studios/major che ha la forza commerciale per spingere i propri prodotti: Disney, Mondadori, Medusa o chi vuoi tu. Esclusa l’editoria che è molto più frammentata delle altre industrie culturali, il resto dei prodotti culturali più popolari assume un punto di vista occidentale, maschile, bianco, eteronormativo. Quando non lo è, è l’eccezione che conferma la regola. Cosa fare?
Ciò che faccio è nutrirmi di storie che rappresentano le minoranze meno espresse e meno conosciute. In alcuni ambiti culturali (editoria) sono più rappresentati, meno in altri, come il cinema. Preferisco leggere storie di donne, scritte da donne o vedere film di paesi meno visti al cinema, con protagonisti marginalizzati, di registi donne. Non è poi così difficile grazie a internet. Serve solo un minimo investimento di tempo per selezionare e la conoscenza dell’inglese certamente aiuta, almeno per il cinema che viene meno distribuito in Italia e quindi non viene doppiato, se non in inglese.
Empatia e noia
L’effetto di tutto ciò è duplice: empatia e noia.
Empatia è vedere il mondo da un punto di vista molto diverso dal tuo. Un genere diverso, una condizione sociale non privilegiata come quella di qualcuno che vive in Italia e ha un buon livello di istruzione e di benessere, una situazione di sofferenza data da povertà, oppressione, malattia mentale. Le occasioni per praticare l’empatia, leggendo o vedendo sullo schermo le storie autentiche di simili personaggi sono numerose. Certo, non in prima serata su Raiuno, né nel multiplex di città, né nell’offerta in evidenza della tua piattaforma streaming preferita e neanche in vetrina in una libreria di catena. L’effetto collaterale è che assumi l’informazione in modo diverso e guardi al mondo con un’altra prospettiva. Le copertine delle riviste con i soliti divi americani ti respingono, così come i modelli offerti dalla pubblicità: il mondo è più vario, più ricco e più sfaccettato di quanto ti viene proposto nei contenitori di massa.
Noia. Non sempre un contenuto di nicchia è scoppiettante, coinvolgente, attraente. Come potrebbe esserlo la storia di una donna kosovara che attende da 7 anni il ritorno del marito, certamente ucciso da rastrellamenti durante la guerra e mani tornato? Non lo è certo la storia di un giovane peruviano che va in città per trovare un lavoro e si ritrova a faticare per sopravvivere, senza casa e senza aiuto. In questi casi la tentazione è di spegnere, interrompere la visione e la lettura e passare a qualcosa di più semplice, precotto, predigerito. Qui viene il bello, perché in questi casi anche la noia è un esercizio. Esercitare la tua mente a ridurre gli stimoli e a vivere bene anche senza qualcosa di nuovo ogni minuto. Non è per niente facile, perché la tentazione è forte, ma serve. Eccome se serve. Non siamo più capaci di stare bene un minuto senza fare nulla. Eppure ci sono momenti della vita in cui non c’è niente da fare o la nostra condizione di salute ci impedisce di fare. Allenare la noia, quando si presenta, è un’antidoto contro la frenesia dell’avere tutto e subito. Un dono, amaro, ma prezioso.
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