E intanto, era una specie di tormento lasciare la stanza per preparare una tazza di tè – cercavo la teiera a tentoni e gettavo frettolosamente una bustina nella tazza. Era quasi impossibile uscire per andare in farmacia a comprare nuove scorte di guanti e salviette, un altro pacchetto di quei piccoli lecca lecca spugnosi che usano per inumidire le labbra alle persone morenti – la sua lingua così avida del sollievo dell’acqua che lo stomaco non riusciva più a trattenere. “Come stiamo oggi?” diceva il dottore curvandosi su di lei, e quando apriva gli occhi ardevano del desiderio di un’altra ora, un altro giorno. Katherine O’Dell non se ne stava andando da nessuna parte. Era tutta lì. Era pienamente se stessa.
Il dopo fu molto più facile. Quando se ne fu andata, e non mi rimase nessuno a cui aggrapparmi. Ero sola in casa quando successe. La pausa tra un respiro e l’altro si allungò, e una di queste pause continuò per sempre.
Sedetti a lungo accanto a lei, senza alcun pensiero che mi distraesse. Il silenzio nella mia mente era assoluto.
All’improvviso mi venne una fame da lupo. Mi alzai e uscii dalla porta – e per qualche ragione, era una cosa sorprendente da fare. Mi diressi in cucina con una nuova leggerezza, perché per la prima volta da settimane potevo allontanarmi dal suo letto. Potevo spostarmi di stanza in stanza. Non dissi a nessuno che se n’era andata – non sapevo che parola usare – e non telefonai a nessuno tranne al numero che mi aveva lasciato la clinica per malati terminali. Katherine morì una domenica sera di un fine settimana lungo e ci volle molto tempo prima che un dottore venisse a constatare la morte. Giacque lì per molte ore, in un meraviglioso silenzio. So che era triste. I cadaveri sono un orrore, forse, o un affronto, ma c’era, nelle care spoglie di mia madre, la consolazione di sapere che lei non era lì dentro. Lei non era lì.
Anne Enright – L’attrice
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