Una volta mi divertivo a tracciare i libri del mese e i film del mese, con un post dedicato. In questo articolo mi dedico a considerazioni varie relative al mese che termina oggi. Non hanno una relazione tra loro, se non il fatto di afferirsi al mese di settembre.
Ho letto questo mese, anche se in modo un po’ frammentario. Ho esercitato una certa autodisciplina, ma non come avrei fatto in passato. Ho letto in modo libero, senza troppe costrizioni, facendomi trasportare da ciò che mi stimolava. Il risultato è: pochi libri terminati e vari libri aperti. Sono stato anche in varie librerie, dove ho scovato libri che avevo, ma che non avevo ancora sfogliato. Lo sfogliarli in libreria, li ha fatti salire in coda alla lista. In qualche caso me li ha fatti iniziare nella lettura.
Sotto la pelle del mondo
Son ancora a un terzo del libro e lo trovo illuminante. Non solo per il contenuto – un trattato pratico di geopolitica, in cui la visione leaderista e individualista occidentale viene ribaltata – ma per la forma. L’autore, Dario Fabbri, ha una magnifica proprietà di linguaggio. Un libro intelligente, anche per ampliare il proprio vocabolario.
Nella dimensione parallela della nostra istruzione pubblica (e privata), il resto del mondo è tuttora narrato come tendente verso Occidente, approdo ultimo dell’evoluzione, bramante di parlare inglese, di campare come noi. Le collettività giudicate per le forme istituzionali, dunque tramite rappresentazione del reale, non per sostanza. Gli Stati estranei alla democrazia descritti come inferiori o incapaci di replicare un percorso luminoso. Le guerre come inammissibili anacronismi, annullate dall’ecumenico riconoscimento dei diritti umani, inventati tra Francia e Stati Uniti, ma protocollati come universali – va senza dire.
Gli unici conflitti contemplabili quelli innescati dall’utilitarismo o dalla volontà di un singolo tiranno, ogni volta agente sopra e contro la popolazione.
Su tutto, la cantata estinzione dei popoli, apparentemente rimpiazzati dai cittadini, categoria giuridica à la carte, liberi di aderire a specifiche collettività per turismo o convenienza, siano queste europee o sideree.
In epigrafe: tutto ciò che non esiste, che mai è esistito.
Sulla Terra, vale il contrario. La storia non s’è mai arrestata, neppure per un battito. La stragrande maggioranza degli umani non vive di economia, non la ritiene fine ultimo della propria traiettoria.
Nel XXI secolo, gli imperi agiscono con smaccato piglio antieconomico, determinati a rimanere nella mente dei posteri per la civiltà creata, per le battaglie vinte, per la lingua diffusa, non per il benessere ostentato. Con i piedi nell’attuale, sono ossessionati dalla storia che masticano costantemente, cucendola sulle ambizioni future. Dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia all’Iran, fino alla Turchia, all’Etiopia.
Gli altri umani non hanno intenzione di rinnegare il proprio “costume” per vivere come noi. Non perché interdetti da qualcuno o inabili a comprendere la nostra (presunta) superiorità. Semplicemente, non vogliono baloccarsi tra gli aperitivi e i punti di pil, chiusi in casa la sera a guardare fuori dalla finestra – ammesso ne posseggano una. Non segnalano alcun apprezzamento per l’inglese, né riconoscono prerogative e democrazia distillate quaggiù, costruzioni che sovente giudicano (neo)coloniali. Vescicante consapevolezza.
Uno di quei libri, come il prossimo, che sembra caderti di fronte nel momento in cui ne hai bisogno. I primi tre capitoli sono su USA, Cina e Russia. Utili a capire che gli statunitensi restano dominanti nel mondo, seppur la percezione dica il contrario, che i cinesi ambirebbero ad avere un maggiore ruolo su scala globale ma che il divario tra campagna e città, insieme all’invecchiamento rapido della popolazione mineranno questo desiderio, che i russi fanno i russi e che non c’è un dittatore cattivo (Putin) e un popolo buono. Ogni popolo ha i governanti che si è scelto, per via elettorale o per altre vie. Non si può condannare un governo e assolvere il popolo. A una prima lettura può sembrare provocatorio ed eretico, ma gli argomenti portati alla tesi sono più che convincenti.
Fa il paio con la crisi in Medio Oriente – Gaza, Israele, Libano, Iran – vista da Al Jazeera, dal Guardian e dal New York Times. Al Jazeera da spazio a voci critiche dell’Occidente, che vedono il conflitto in corso con gli occhi di chi muore sul campo. Guardian e soprattutto NYT seguono tutto con maggiore distacco ed equidistanza, spesso con fonti israeliane che raccontano i retroscena di bombardamenti, decapitazione di vertici e altro. Al Jazeera invece è stata allontanata prima da Israele e poi dai territori occupati.
Il racconto del mondo è un punto di vista. I nostri media hanno il punto di vista occidentale, con tutti i limiti di chi non riesce a cambiare prospettiva.
Terra bruciata
Altro libro che ho ri-scoperto in libreria, anche se l’avevo già da oltre un anno. Scritto da Jonathan Crary, che avevo già apprezzato in 24/7 pubblicato da Einaudi. L’inizio del libro è folgorante. Il grassetto è mio:
Se mai sul nostro pianeta avremo ancora un futuro vivibile e condiviso, si tratterà di un futuro offline, slegato dai devastanti meccanismi e sistemi del capitalismo 24/7. Qualunque cosa sia ciò che rimarrà del mondo, la rete, nel modo in cui la viviamo oggi, sarà diventata una parte marginale e fatiscente delle rovine sulle quali avranno potuto eventualmente edificarsi nuove comunità e nuovi progetti interumani. Se saremo stati fortunati, una breve epoca digitale sarà stata superata da una cultura materiale ibrida basata su vecchie e nuove modalità di vivere e lavorare in modo cooperativo. In questo momento, nel mezzo di una crisi sociale e ambientale che diviene ogni giorno più intensa, cresce anche la consapevolezza che una vita quotidiana, oscurata a tutti i livelli dal complesso di internet, abbia ormai superato una soglia di irreparabilità e tossicità. Sempre più persone lo sanno o lo percepiscono, facendo tacitamente esperienza delle conseguenze rovinose di un tale modo di vivere. I dispositivi e i servizi digitali utilizzati ovunque dalle persone sono subordinati al potere di compagnie transnazionali, agenzie di intelligence, cartelli criminali e un’élite miliardaria e sociopatica. Per la maggioranza della popolazione del pianeta alla quale è stato imposto, il complesso di internet è il motore implacabile di dipendenze, solitudine, false speranze, crudeltà, psicosi, indebitamento, spreco di vita, corrosione della memoria e disintegrazione sociale. Tutti i suoi propagandati benefici sono resi irrilevanti o secondari dai suoi impatti lesivi e “sociocidi”.
Libro che capita al momento giusto perché, anche solo questa introduzione, descrive un mio stato d’animo degli ultimi mesi, se non ancora antecedente. Basta vivere online. Non mi soddisfa più fare amicizia online, leggere contenuti scritti da altri utenti o seguire influencer su YouTube o altrove. Non leggo e non vedo nulla di personale (o quasi), non commento, non partecipo. L’era della blogosfera, 15-20 anni fa, in cui la mia vita era più online che offline, pur con molti eventi offline, è finita. Cerco di usare Internet per organizzare momenti di socializzazione offline e poco altro. Ho perso perfino la voglia di sedermi alla scrivania e scrivere, men che meno in pubblico. La voglia di condividere resta, ma è più uno a uno, dallo smartphone, in modo limitato, spesso fotografico o condividendo passaggi di libri che si rifanno a conversazioni precedenti, in attesa di rivedersi di nuovo.
Una conseguenza diretta è che la mia vita sociale non è stata mai così attiva e soddisfacente come negli ultimi 3 mesi. Spiaggia, mare, conversazioni faccia a faccia, cinema, cene (più a casa che fuori casa), chiacchiere, escursioni, weekend fuori, nuove conoscenze, nuove esperienze, sviluppo di un network locale, colazioni, passeggiate, cucina, buon cibo, arte, mostre. Nell’ultimo mese avrò acceso il televisore 2-3 volte. Tempo passato alla scrivania ridotto ai minimi termini. Metà delle notti passate fuori casa.
Non sono arrivato a pensare di vivere senza Internet, ma posso tranquillamente vivere senza il surrogato di vita che sono i social network. L’ultima estate lo dimostra. Seguendo lo stesso percorso, sono convinto che l’uso di Internet si può ridurre e non aumentare. Sicuramente in tutti quei contesti in cui la vita online è un surrogato della vita offline. Le relazioni personali vanno coltivate sul piano locale e, se internazionali, bisogna trovare il tempo di vedersi di persona. Ho rivisto e rivedrò amici che vivono a un migliaio di chilometri di distanza e oltre. Alcuni anche più di altri amici, che vivono a pochi chilometri da casa mia. Tutto dire.
Un po’ come noi
Nel 1386 a Falaise, nella Francia settentrionale, accadde qualcosa di incredibile.
Quando le campane cominciarono a suonare, i fabbri posarono i martelli sulle incudini, le sarte misero via gli abiti e gli anziani si alzarono dalle panchine. Dai vicoli adiacenti le persone si precipitarono nella piazza principale, con il collo teso e lo sguardo rivolto al patibolo. La pedana sopraelevata su cui i criminali scontavano la propria condanna a morte era vuota, ma la corda che pendeva dalla forca indicava che qualcosa stava per succedere. Quel giorno la tensione era molto alta, perché il criminale da giustiziare era accusato del peggiore dei crimini: l’uccisione di un bambino. La vittima era stata aggredita e abbandonata in strada, e non c’erano dubbi su chi fosse il colpevole.
Nell’Europa medievale c’erano due modi per impiccare le persone: il metodo convenzionale, in cui la corda veniva stretta attorno al collo del condannato a morte, e uno meno frequente ma più umiliante (quello a cui gli spettatori avrebbero assistito a breve) in cui il criminale veniva appeso a testa in giù con il cappio stretto attorno ai piedi. Nel Medioevo, quando l’antisemitismo in Europa era molto diffuso, a subire questo tipo di trattamento di solito erano gli ebrei. Ma quel giorno a Falaise a essere spinto verso la forca non era un ebreo. Tantomeno un cristiano o un pagano. Questa volta il criminale non era nemmeno una persona: era un maiale.
Alla scrofa incriminata, che arrancava sopra la pedana con un cappio legato attorno alla zampa posteriore, erano addirittura stati fatti indossare abiti umani: una giacca, dei pantaloni e un paio di guanti bianchi sulle zampe anteriori. Come se non bastasse, sul muso le era stata messa la maschera di un volto umano1.
Al termine del processo, il tribunale di Falaise aveva emesso una sentenza che imputava il crimine alla scrofa secondo leggi e principi morali modellati su un sistema pensato per gli esseri umani, che l’animale non aveva alcuna possibilità di comprendere. Quando la corda venne stretta attorno alla zampa posteriore e poi tirata, la scrofa si sollevò da terra e cominciò a contorcersi e a gridare disperatamente. Quello spettacolo aveva un doppio significato per gli astanti: da una parte c’era la derisione nei confronti degli ebrei, che rischiavano di subire lo stesso trattamento di un animale con cui avevano un rapporto complicato; dall’altra, invece, l’assurda antropomorfizzazione dell’animale era espressione di una lunga tradizione che riconosce nel maiale tratti umani, e negli umani tratti suini.
Prologo di un altro libro che mi incuriosisce molto. Da altri libri, so già che i maiali sono tra gli animali più intelligenti. Eppure ci piace il prosciutto e quindi, ciao maiale.
Una nuova vita
Ho scoperto che è in uscita domani (primo ottobre 2024) un libro che ho letto e apprezzato tempo fa. The New Life, Una nuova vita. Lo rileggerò in italiano.
Elizabeth
Quando la nonna sparì, il vetro del grande, pregevole specchio della sua camera da letto fu trovato sul pavimento in tanti frantumi scintillanti sparsi qua e là, come i resti di un mosaico scolorito che avesse ceduto di colpo.
Avete mai pensato agli specchi? Forse sì. In bagno, magari, nella quiete della domenica sera, mentre vi dedicavate a una di quelle operazioni personali di cui non si parla mai. Magari vi stavate tagliando i peli che crescono negli umidi, oscuri recessi delle narici. Unico rumore, quello delle forbicine.
Spero non vi imbarazzi se vi parlo con tanta franchezza. Tenete presente che non sono più una bambina: sono una giovane donna. Me lo dice lo specchio, e me lo dicono gli occhi degli uomini. Quando ero piccola, ho visto James, il fratello di mio padre, spostare lo sguardo dal nostro cane a me senza cambiare espressione. Presto gli ho insegnato a guardarmi come non guardava nient’altro.
Ma parlavamo di specchi. Che cosa fareste se non ci fossero? Sareste convinte della vostra bellezza o del vostro fascino così poco convenzionale se lo specchio non vi rassicurasse cento volte al giorno? C’è anche il caso che vi imbrogli: la vostra pelle potrebbe non essere poi così levigata; la curva sensuale e perfetta del vostro labbro inferiore potrebbe dare segni di cedimento su un lato e rovinare tutto. Proprio non c’è modo di sapere se lo specchio vi mostra quello che vedono gli altri o quello che siete davvero.
Se ci avete pensato bene, saprete che gli specchi sono oggetti misteriosi. Entrate in camera vostra, stasera – magari a lume di candela –, e sedetevi da brave davanti al grande specchio: forse vedrete quello che ho visto io. State lì, tranquille, senza guardare né il vostro riflesso né lo specchio. Forse vi accorgerete che l’immagine non è la vostra, ma quella di una persona eccezionale vissuta in un altro tempo.
Mi chiamo Elizabeth Cuttner e ho quattordici anni. So che sareste più interessate alla mia storia se fossi una persona di mezza età, ma vi prego di ricordare come eravate a quattordici anni. Il vostro intuito non era forse più fine? Quasi sicuramente a quei tempi c’era qualcosa che vi appassionava. Che cosa vi appassiona adesso?
Ammetto che ci sono un mucchio di cose di cui so pochissimo. Ma un mucchio di cose le so. So, per esempio, che di recente guardavate la TV con qualcuno che in teoria dovreste amare e non pensavate né a quella persona né a ciò che stavate guardando. Forse pensavate con nostalgia o rimpianto a qualcosa che vi è successo quando avevate quattordici anni.
Credo di sapere come vi appare il mondo. Forse due anni fa, quando ero una ragazzina, non ne avevo idea. Ma ve l’ho detto, ormai sono una donna, e non c’è sensazione a voi nota che non conosca anch’io. Potrei aver avuto esperienze importanti che a voi sono state negate. Ve ne convincerete, prima o poi.
Sono venuta ad abitare dalla nonna più o meno un anno fa, dopo aver ucciso i miei genitori. Non vorrei sembrarvi senza cuore. Lasciate che vi spieghi.
L’inizio folgorante di un nuovo romanzo tradotto da Adelphi. Non viene voglia di leggerlo?
L’allargamento
I nani hanno conquistato il mondo. Tomislav «Tommy» Vysoky rimase di stucco quando se ne rese conto. Era un ragazzo di un metro e ottanta che studiava comunicazione transculturale all’università di Vienna, dove giocava anche a basket nella squadra degli Uni Wien Emperors. Per finanziarsi gli studi faceva sempre qualche lavoretto part-time, e da una settimana era stato assunto come custode al Weltmuseum, una succursale del Kunsthis-torisches Museum, nella Hofburg di Vienna. Il martedì e il mercoledì al mattino, il venerdì al pomeriggio: un impegno che poteva conciliare bene con lo studio. Gli era stata assegnata l’armeria, la più importante collezione storica di armi d’Europa, tutti oggetti creati in concomitanza con eventi di alta politica come diete imperiali, incoronazioni, campagne militari, che «raccontavano la storia» delle dinastie, dall’ascesa al declino, e dei momenti cruciali della storia europea, come si leggeva sul catalogo. Tommy Vysoky trovava quell’espressione assurda, gli oggetti non raccontavano un bel niente, le armature se ne stavano lì in fila mute, avrebbero dovuto essere affiancate da qualcuno che fosse davvero capace di raccontare. Ma non era compito suo. Lui doveva solo assicurarsi che la gente non si avvicinasse troppo. Il cuore dell’area che doveva sorvegliare era l’«Armeria degli eroi», una collezione di spade, alabarde, elmi, armature, corazze e trofei di guerra, soprattutto bandiere e stendardi, appartenuti ai generali più famosi del XV e del XVI secolo, conquistatori e paladini dell’Occidente. Ma per Tommy Vysoky il lucore di quegli oggetti non irradiava l’aura di paladini forti e potenti, vincitori di innumerevoli battaglie, dominatori del mondo allora conosciuto; piuttosto, era stupito dalla statura minuscola degli uomini cui erano appartenuti. A giudicare dalle loro armature, dovevano essere a malapena più alti di un metro e sessanta. Dei nani, insomma.
Sellerio ha tradotto un altro libro dell’autore de La capitale, molto molto apprezzato. Anche questo sale in alto nella coda. Questo è l’incipit.
La conoscenza accidentale
Il ricercatore, per definizione, insegue qualcosa che non ha a portata di mano, che gli sfugge, che desidera. E che cos’è questa cosa? «Una sorta di cosa in sé oscura, tentante e misteriosa, un supremo residuo che possiamo tingere della valenza più ideale e di quella più sordidamente materiale», come la definiva Michel Leiris, in un altro contesto.1 Il ricercatore, ovviamente, non potrà mai dominare qualcosa se prima non la cattura. Altrimenti verrebbe a cadere l’essenziale, la ricerca stessa in quanto movimento. E dunque continua a inseguire la sua idea fissa – e magari inespressa –, abbandonandosi alla sua passione preponderante, in un inseguimento senza fine, che forse, a ragione, definirà metodo.
Talvolta, mentre corre, si ferma interdetto: un’altra cosa, inattesa, è apparsa improvvisamente ai suoi occhi. Non la cosa in sé della sua ricerca fondamentale, ma una cosa fortuita, esplosiva o discreta, una cosa imprevista che si trovava lungo la strada. Eppure, di fronte a essa, il ricercatore intuisce di avere… «trovato qualcosa». Ma a che cosa gli serve quello che ha trovato per quello che sta cercando? Non c’è il pericolo che quella cosa accidentale interrompa il suo «progetto», come si usa dire tra i professionisti della «ricerca»? Forse. Se indugia su quell’avvenimento imprevisto non rischia forse di perdersi, di mettere a repentaglio il proprio metodo? Forse. Ma la scoperta, se le si dedica un po’ di tempo, si dimostra sorprendentemente generosa e feconda. Ciò che la cosa inattesa non è in grado di offrire – una risposta agli assiomi della ricerca come domanda che riguarda il sapere – essa ce lo dona altrove e altrimenti: in un’apertura euristica, in una sperimentazione della ricerca come incontro. Un altro genere di conoscenza.
Il bello dei bookshop dei musei è che trovi libri stimolanti, magari neanche nuovi, come questo.
Sto leggendo anche Nexus, il nuovo libro di Harari, sempre illuminante nel suo raccontare la storia. Ho finito The Coin, narrativa americana, dissacrante e divertente.
La retorica della bellezza non mi ha mai convinto. Mi convince di più quella dell’arte. Dell’arte come strumento di riflessione, di stimolo, per coltivare l’immaginazione, per pensare, per interpretare la vita e il mondo, il passato e il presente. È uscito La scrittura geniale di Matteo Bortolotti, utile a comprendere il valore della scrittura pratica. Spero abbia il successo che merita.
Botero
Coincidenza fortunata, sono capitato a Roma nei giorni immediatamente seguenti l’avvio della nuova mostra su Botero, artista colombiano scomparso un anno fa. La mostra è a Palazzo Bonaparte, a Roma appunto. Le opere ospitate non sono troppo numerose, ma la mostra vale il prezzo (alto) del biglietto. Ottima selezione, ottima presentazione, ottima illuminazione.
Alla festa del cinema di questo mese sono riuscito a vedere 3 film, tutti di qualità.
La misura del dubbio (Le fil)
Film processuale francese, diretto e interpretato da Daniel Auteil. Tiene il ritmo prima delle rivelazioni dell’ultima parte. L’imputato sarà o non sarà colpevole? Come sono andate le cose veramente? Non imperdibile, ma consigliato.
Thelma
Ne avevo sentito parlare bene, ma non pensavo così. Storiella semplice di una signora anziana, vittima di una truffa, che vuole cercare di recuperare al torto fatto. Omaggio alla nonna del regista, che appare anche al termine del film. Strizza l’occhio a Mission Impossible, drammatizzando una storia che non è né azione, né thriller, ma il gioco è divertente e ben riuscito. Al cinema in Italia, come prevedibile, non l’ha visto nessuno, neanche a 3,5 euro, ma non c’è da stupirsi. Da recuperare e da vedere con i propri nonni o genitori anziani.
Da non confondere con Thelma norvegese, anche se pure quello è un film assolutamente da vedere.
Parthenope
Curioso, ho approfittato e sono andato a vedere la prima dell’anteprima, seppur con la proiezione delle 23,50. Mi è piaciuto. L’estetica di Sorrentino merita il prezzo del biglietto. La fotografia e i movimenti di camera sono belli e coinvolgenti. Le canzoni scelte con cura. Casting azzeccato. Napoli, Capri e Anacapri sullo sfondo non sfigurano. La storia a un certo punto arranca, appaiono personaggi un po’ fuori tono (forse per chi non è Sorrentino o napoletano?), ma ciò non inficia il giudizio che resta positivo. Non è stato scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar e va bene così. Lo rivedrò all’uscita ufficiale. Da vedere e discutere.
Su tutto alcune scene con il mare sullo sfondo. Una luce sfolgorante. Personaggi immobili, neanche fossero quadri. Ammaliante.
Non guardare il trailer perché ti fa passare la voglia di vederlo. Uno dei rari casi in cui il trailer è brutto e il film è bello.
Ho visto anche Campo di Battaglia, L’innocenza (Monster), Beetlejuice Beetlejuice e Limonov. Il secondo magnifico, il quarto originale, il terzo per i nostalgici, il primo perdibile.
Le esperienze di un mese sono tante e documentarle tutte richiederebbe una giornata intera, se non oltre. Mi limito a lasciare questa traccia, che include spunti di lettura, stati d’animo, e spunti di visione. Per quanto non mi è sembrato proprio così, mi compiaccio che la mia vita intellettuale continua a svilupparsi e a dare frutti, in termini di ragionamento e di riflessione. Avanti così.
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