Lo spirito critico non può mai venire meno. Indispensabile in ogni ambito della vita, ma nel giornalismo e nell’interpretazione dei fatti lo è ancor di più. Oltre 20 anni fa mi divertivo a bloggare commentando ed evidenziando gli errori e le approssimazioni dei giornali e dei giornalisti italiani. All’epoca i blog erano sotto i riflettori e molti giornalisti mi leggevano, anche nelle redazioni delle principali testate italiane. Il mio giornale preferito era Repubblica e, di conseguenza, è questo il giornale in cui ho cominciato a notare più spesso errori. Dai titoli sbagliati, a una cronaca e interpretazione sbagliate dei fatti, fino poi al copia e incolla (e traduci) dai giornali americani (New York Times, Wall Street Journal e altri), senza citare la fonte, come farina del proprio sacco (vedi alla voce Rampini). Potendo andare alla fonte, il gioco è stato facile, come lo smascheramento.
Poi siamo arrivati alla caduta di quasi tutte le grandi firme e i grandi opinionisti, uno dopo l’altro. Appena si azzardavano a commentare l’angolo della rete che conoscevo molto bene, ecco cadere l’asino e con essa la mia fiducia, persa per sempre. I mostri sacri si sono rivelati, uno dopo l’altro, approssimativi, ignoranti, millantatori o semplicemente di parte o interessati (e falsi). Da qui la mia conseguente disaffezione per i grandi giornali italiani, a favore dei giornali internazionali in lingua inglese, lingua che, per fortuna, ho studiato, coltivato e conosco abbastanza bene da poter leggere tranquillamente un articolo di giornale e non solo.
I giornali italiani sono i più informati quando si tratta di politica interna e cronaca nazionale, anche se questo non li esime dall’inventare retroscena politici o nel riportare fatti in modo parziale o errato. Li leggo quando ho bisogno di sapere qualcosa, ma oggi li ignoro o ne leggo solo le prime pagine, tanto per avere un’idea di cosa comprende l’agenda del giornalismo in Italia. Opinionisti che hanno la mia fiducia: zero.
Per il resto vado direttamente alla fonte e per la politica e l’economia internazionali leggo: The Guardian, Financial Times, The Economist, New York Times, Al Jazeera English.
Al Jazeera English è interessante per il punto di vista alternativo, incentrato su Medio Oriente e Terzo Mondo. Leggo e vedo le corrispondenze sul campo e ignoro, per lo più, gli opinionisti, critici per partito preso (a volte anche a ragione) di Israele, Stati Uniti e chi li supporta e ne è alleato, più neutrali su tutto il resto che succede nel mondo.
New York Times, seppur con codici etici che i giornali italiani si sognano, non è perfetto. Persegue un’agenda liberal, anche in modo trasparente, e ovviamente ha un punto di vista americano su tutto. Alla lunga poco interessante per chi vive in Italia e non negli USA. Lo leggo sempre meno.
The Guardian e The Economist sono i più europei e i più globali, venendo editati nel Regno Unito ed essendo scritti in lingua inglese. Parlano agli inglesi e a tutti quelli che parlano inglese. Li apprezzo e li seguo per tener il polso di ciò che succede in Europa e nel mondo, consapevole che hanno un punto di vista capitalistico, meno il primo e più il secondo. Posso non sempre essere interessato alla scelta delle notizie di prima pagina, ma lo stile è impareggiabile.
Il Financial Times è il più bravo nel seguire l’economia – l’economia governa il mondo più della politica, quindi non la si può ignorare – e ha un parco di opinionisti di tutto rispetto. Ho imparato a ridimensionarne il valore leggendo le rubriche sull’edizione del fine settimana, FT Weekend, ma sui temi più importanti l’ho sempre ritenuto una fonte e una opinione autorevole. Oggi però cade, nella mia visione, anche il Financial Times, a causa di un editoriale su Bitcoin.
L’opinionista che firma il pezzo è nel comitato editoriale del giornale, quindi ha l’appoggio del giornale al massimo livello. L’articolo è su Bitcoin (senza paywall) e, sostanzialmente, mette in guardia gli scettici riguardo l’investimento nelle criptovalute, consigliando di cambiare punto di vista. Il motivo, banalizzo e sintetizzo, sarebbe il sentiment del mercato e l’avvento del secondo mandato di Trump. Un insieme di fattori, tra cui anche Robert F. Kennedy Jr, segnerebbe una nuova fase nell’ascesa delle criptovalute, da considerare ora un asset finanziario da mettere nei propri portafogli senza più timori, seguendo il consiglio di vecchi e nuovi adepti.
Come si possono usare argomenti simili per un cambio di rotta tale? Bitcoin supera 90000 $ quindi non lo si può più ignorare? Tutti comprano e dicono di comprare sempre di più, quindi è il momento di comprare anche noi? Gli argomenti a supporto mi sembrano lasciare il tempo che trovano e la dinamica mi sembra esattamente la stessa degli altri boom (e crolli) del passato. Che il FT consigli di comprare sul nuovo massimo storico mi sembra quanto meno imprudente e inavvertito. La questione non è se Bitcoin continuerà a crescere o crollerà, ma se si può cambiare opinione sulla sua sensatezza, in termini di asset allocation (quota di investimento del proprio portafoglio), semplicemente perché il prezzo si impenna e molti investitori istituzionali dicono ora di voler comprare. Mi dispiace: da un giornale simile mi sarei aspettato un approccio più serio e prudente. Errore mio. I miti non esistono. Anche Financial Times sbaglia ed è normale che sia così. Il giornalismo è fatto da uomini che, in quanto uomini, possono sbagliare.
Per inciso. Nei commenti del pezzo si confrontano fanatici crypto contro scettici. Ho imparato, grazie a due commenti, due sigle. Una è HODL, che sta per tenere a lungo termine e non vendere, anche quando il prezzo è molto volatile, come per il passato del Bitcoin. Consiglio utile per tutti gli investimenti a maggiore rischio, con risorse investite sul lungo termine. Sigla usata dai fan di Bitcoin, come se fosse qualcosa di nuovo o innovativo. L’altra è LFG (looking for group), ovvero un comportamento dettato dal volersi sentire parte di un gruppo. In questo caso il gruppo è quello dei fan delle criptovalute. Ovvero, chi investe lo fa per andare dietro al gregge, il gruppo di cui vuole sentirsi parte. Niente di nuovo neanche qui, ma mi diverte che gli americani (o gli anglosassoni), soprattutto online, si divertano a usare acronimi per qualsiasi cosa, come se il battere sulla tastiera per partecipare a forum e spazi di confronto online debba essere il più possibile veloce e tempestivo, a scapito della lingua.
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