La lettura di Se niente importa di Jonathan Safran Foer non lascia indifferenti. Il libro contiene una riflessione dell’autore, molto ben documentata, sul perchéoggi sia preferibile non mangiare carne, a favore di una dieta vegetariana. Questo libro mi ha convinto a cambiare dieta. Ti ripropongo 25 passaggi che ho sottolineato nel libro per farti riflettere e incuriosirti a leggere il libro. Non mangiare carne è una scelta personale: a te scegliere.
In un’occasione Martin Luther King affermò con passione che «prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né popolare», a volte bisogna prendere una decisione semplicemente «perché la coscienza dice che è giusta».
Non ci serve l’opzione di comprare giocattoli per bambini colorati con vernici al piombo, o spray con clorofluorocarburi o farmaci con effetti collaterali non indicati. E non ci serve l’opzione di comprare animali provenienti da allevamenti industriali.
Una delle maggiori opportunità di vivere i nostri valori – o di tradirli – sta nel cibo che mettiamo nei nostri piatti. E vivremo o tradiremo i nostri valori non solo come individui, ma come nazioni.
Per chi la ritiene una decisione difficile (mi sarei annoverato tra questi), la domanda decisiva è se ne valga la pena. Sappiamo che, perlomeno, questa scelta aiuterà a prevenire la deforestazione, a contenere il riscaldamento globale, ridurre l’inquinamento, preservare le riserve petrolifere, attenuare la pressione sull’America rurale, diminuire gli abusi sui diritti umani, migliorare la salute pubblica e contribuire a eliminare i maltrattamenti sugli animali più sistematici nella storia mondiale.
La questione per me sta in questi termini: considerato che mangiare gli animali non è assolutamente necessario per me e per la mia famiglia – a differenza di altri al mondo, noi abbiamo facile accesso a un’ampia gamma di alimenti diversi -, dovremmo mangiarli? Rispondo a questa domanda come qualcuno a cui piaceva mangiare gli animali. Una dieta vegetariana può essere ricca e assolutamente gustosa, ma non sarei sincero se sostenessi, come molti vegetariani cercano di fare, che sia altrettanto ricca di una dieta che comprende la carne. (Chi mangia lo scimpanzé guarda alla dieta occidentale come tristemente priva di una grande squisitezza.) Adoro il sushi, adoro il pollo fritto, adoro una buona bistecca. Ma la mia adorazione ha un limite.
Noi non possiamo addurre come scusa l’ignoranza, ma solo l’indifferenza. La nostra generazione sa come stanno le cose. Abbiamo l’onere e l’opportunità di vivere nella fase in cui le critiche all’allevamento intensivo hanno fatto breccia nella coscienza popolare. Siamo noi quelli a cui chiederanno a buon diritto: «Tu che cos’hai fatto quando hai saputo la verità sugli animali che mangiavi?»
L’allevamento intensivo cesserà prima o poi per via della sua assurdità economica. completamente insostenibile. La terra finirà per scuoterselo via di dosso come un cane si scuote via le pulci; resta da vedere se finiremo scossi via anche noi.
Quanto dev’essere distruttiva una preferenza culinaria prima di decidere di mangiare qualcos’altro? Se contribuire alle sofferenze di miliardi di animali che vivono vite raccapriccianti e (spessissimo) muoiono in modi altrettanto raccapriccianti non è motivo d’ispirazione, che cosa può esserlo?
Nel 2050 il bestiame nel mondo consumerà cibo come quattro miliardi di persone. Una produzione di carne che segua i principi etici cui la maggior parte di noi si attiene (fornire una buona vita e una morte facile agli animali; pochi reflui) non è una fantasia, ma non può fornire le enormi quantità pro capite di carne a basso prezzo di cui godiamo attualmente.
Se vogliamo sul serio mettere fine all’allevamento industriale, il minimo che possiamo fare è smettere di mandare assegni a chi commette abusi della peggior specie. Sono diventato un vegetariano convinto, mentre prima tentennavo tra vari tipi di dieta. Ora mi è difficile comprendere quell’indecisione. Non voglio avere niente a che fare con l’allevamento industriale e astenermi dalla carne è per me l’unico modo realistico di farlo.
Mi sono limitato a discutere prevalentemente di come le nostre scelte alimentari incidano sull’ecologia del pianeta e sulla vita degli animali, ma avrei potuto altrettanto facilmente costruire l’intero libro sulla salute pubblica, i diritti dei lavoratori, il declino delle comunità rurali o la povertà globale, tutte cose su cui l’industria zootecnica ha un impatto pesante.
E se hai la tentazione di mettere a tacere questi tarli della coscienza dicendo «non ora», allora «quando»?
I lavoratori dei mattatoi hanno il più alto tasso di incidenti sul lavoro, pari al ventisette per cento annuo, e ricevono una paga misera per uccidere oltre duemila bovini per turno. Quello che segue è il racconto di uno di loro:
“Tornavo a casa ed ero sempre di malumore. […] Scendevo dritto di sotto e andavo a dormire. Sgridavo i bambini, roba così. Una volta sono rimasto davvero sconvolto, [mia moglie] lo sa. Una vacca di tre anni avanzava sulla passerella per l’abbattimento. E stava avendo un vitello proprio lì, era mezzo dentro e mezzo fuori. Sapevo che stava per morire, allora le ho tirato fuori il vitellino. Cavoli se il mio capo si è imbufalito. […] Quei vitelli li chiamano «aborti». Usano il loro sangue per le ricerche sul cancro. E lui lo voleva. Di solito fanno così, quando le interiora della vacca cadono sul tavolo di eviscerazione, gli uomini vanno a squartare l’utero e tirano fuori questi vitelli. Non è come avere una vacca appesa davanti a te e vedere il vitellino lì dentro che scalcia cercando di uscire… Il mio capo voleva quel vitello, ma io l’ho rimandato ai recinti. […] [Ho reclamato] con i capisquadra, gli ispettori, il responsabile del mattatoio. Persino con il direttore della divisione bovina. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata in mensa su questo schifo che succedeva. Mi imbestialivo così tanto, certi giorni, che prendevo a pugni il muro perché non facevano niente. […] Non ho mai visto un veterinario [dell’USDA] vicino alla trappola di abbattimento. Nessuno vuole tornarci su. Vedi, io sono un ex marine. Il sangue e le viscere non mi danno fastidio. È il trattamento inumano. È così diffuso.”
In realtà non c’è niente di duro o di intollerante quando si afferma che non dovremmo pagare nessuno – e pagarlo giorno dopo giorno – per infliggere ustioni di terzo grado agli animali, privarli dei testicoli o sgozzarli. Guardiamo in faccia la realtà: quel pezzo di carne proviene da un animale che, nella migliore delle ipotesi – e sono pochissimi quelli che hanno la fortuna di cavarsela con così poco -, è stato ustionato, mutilato e ucciso per qualche minuto di piacere dell’uomo. Il piacere giustifica i mezzi?
In questo caso gli interessi in conflitto sono: il desiderio umano di un piacere del palato e l’interesse animale di non essere sgozzato.
È chiaro che i maiali sono intelligenti ed è altrettanto chiaro che sono condannati a vite infami nelle porcilaie industriali. Il parallelo con un cane rinchiuso in un armadio è abbastanza accurato, per quanto benevolo. Le motivazioni ambientali contro il consumo di carne di maiale prodotta in allevamenti intensivi sono ineccepibili e schiaccianti. Per ragioni analoghe non mangerei pollame o prodotti ittici ottenuti con metodi industriali.
Dire che mangiare carne può essere etico suona «simpatico» e «tollerante» solo perché quasi nessuno vuole sentirsi dire che fare quello che vuole fare è immorale.
A suo parere i maltrattamenti degli animali erano l’epitome del paradigma morale secondo cui «la forza è diritto».11 Barattiamo i loro interessi più elementari e importanti con quelli più effimeri di noi esseri umani solo perché ne abbiamo il potere. Ovvio che l’animale uomo è diverso da tutti gli altri animali. Gli uomini hanno un’unicità, ma non tale da rendere irrilevante la sofferenza animale. Pensaci: mangi pollo perché conosci la letteratura scientifica e hai stabilito che non t’importa della sua sofferenza, o lo mangi perché ha un buon sapore? Oppure prova a condurre questo esperimento mentale: tu castreresti gli animali senza anestesia? Li marchieresti? hi sgozzeresti? Prova a guardare queste operazioni (il video «Meet your Meat» si trova facilmente in Internet ed è un buon punto di partenza). La maggior parte delle persone non farebbe quelle cose.
Lo scienziato più noto del settore, Rajendra Kumar Pachauri, presidente dell’IPCC (Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico) e vincitore del premio Nobel per la pace per il suo lavoro, sostiene che tutti gli abitanti del mondo sviluppato dovrebbero optare per una dieta vegetariana, solo per ragioni ambientali
Oltretutto il mondo non ha nessun bisogno di produrre tutti gli animali che attualmente produce. L’allevamento intensivo non è nato e non è progredito perché c’era l’esigenza di produrre più cibo – di «nutrire gli affamati» -, ma per produrlo in modo che fosse redditizio per le grandi aziende agroalimentari.
La decisione di non mangiare gli animali è necessaria per me, ma è anche circoscritta e personale. È un impegno preso nel contesto della mia vita, non di quella di qualcun altro. E fino a una sessantina d’anni fa molti dei miei ragionamenti non sarebbero stati neppure intelligibili, perché l’industria zootecnica oggetto delle mie obiezioni non aveva ancora preso il sopravvento. Fossi nato in tempi diversi, sarei potuto giungere a conclusioni diverse. Rifiutare che si possa picchiare un bambino per «insegnargli una lezione» non vuol dire rifiutare una disciplina severa. Decidere che punirà mio figlio in un modo o in un altro non significa necessariamente voler imporre lo stesso metodo ad altri genitori. Decidere per sé e per la propria famiglia non vuol dire decidere per la nazione o per il mondo. Non è forse una questione che si può dirimere per via legislativa e tramite l’azione politica collettiva, più che con le scelte d’acquisto personali? Quand’è che dovrei rispettosamente dissentire da qualcuno e quand’è che, nel nome di valori più profondi, dovrei prendere posizione e chiedere ad altri di unirsi a me? Quand’è che un determinato evento lascia spazio al dissenso di persone ragionevoli e quand’è che ci impone di agire?
Rinunciare al gusto del sushi o del pollo arrosto è una perdita che va oltre la rinuncia a una piacevole esperienza gastronomica. Modificare la nostra alimentazione e far svanire certi gusti dalla memoria rappresenta una specie di perdita culturale, qualcosa che viene dimenticato. Ma forse vale la pena di accettare, se non addirittura di coltivare, questo genere di dimenticanza (anche la dimenticanza può essere coltivata). Per ricordare gli animali e l’importanza che ha per me il loro benessere forse devo perdere alcuni gusti e trovare altri appigli per i ricordi che un tempo mi aiutavano a conservare.
Non c’è bisogno che tu ti chieda se il pesce che hai nel piatto abbia sofferto. Ha sofferto. Che si parli di pesci, maiali o di altri animali, questa sofferenza è la cosa più importante al mondo? Ovviamente no. Ma non è questo il punto. È più importante del sushi, del bacon o delle crocchette di pollo? Questo è il punto.
Che conclusione trarrebbero gli onnivori più selettivi se su ogni salmone che mangiano ci fosse un’etichetta che informa di come salmoni d’allevamento lunghi settantacinque centimetri trascorrano la vita nell’equivalente di una vasca da bagno d’acqua e abbiano gli occhi che sanguinano per il troppo inquinamento? E se l’etichetta spiegasse che l’acquacoltura provoca un’esplosione delle popolazioni di parassiti, l’aumento delle malattie, il deterioramento dei geni, nuovi microrganismi resistenti agli antibiotici?
La pesca a strascico, quasi sempre per i gamberetti, è il corrispondente marino del disboscamento della foresta pluviale. Qualunque sia l’obiettivo, le reti a strascico dragano pesci, squali, razze, granchi, calamari, molluschi: solitamente un centinaio di specie diverse di pesci e rettili marini. Quasi tutte muoiono. Secondo uno studio sono all’incirca quattro milioni e mezzo gli animali marini uccisi come prede accessorie ogni anno, compresi oltre tre milioni di squali, un milione di marlin, sessantamila tartarughe marine, settantacinquemila albatros e ventimila delfini e balene. Come nel caso di polli e tacchini, la legge non richiede una macellazione con metodi umani per i pesci. Ma i pesci pescati sono un’alternativa più umana? Di certo hanno una vita migliore prima di essere presi, perché non vivono tra recinzioni anguste e sporche. Una differenza rilevante.
Se niente importa
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