Oggi termina la mia presenza sul social web*

Poco fa ho disattivato i miei profili su Twitter (o dovrei dire X).

Credit: Financial Times

Dal 2019 – ne scrivevo oggi 4 anni fa – ho di fatto smesso di usare X, se non per occasionali interventi e per la distribuzione in automatico dei post dei miei blog. La distribuzione si è interrotta a Giugno 2023, quando X ha pensato bene di ridurre gli automatismi per pubblicare con strumenti terzi, con l’intenzione di aumentare la presenza sul sito e di monetizzare l’uso di altre applicazioni agganciate a X. Dall’acquisizione da parte di Elon Musk ho iniziato a meditare di cancellare una volta per tutte i miei profili (@pandemia e @lucaconti). Ho lasciato correre, dispiaciuto all’idea di chiudere un capitolo importante della mia identità digitale, con il profilo aperto nel lontano 31 Dicembre del 2006, compresi alcuni libri scritti e pubblicati sull’argomento. Stanco di leggere delle nefandezze operate dal suo nuovo proprietario, verso i dipendenti prima e verso gli utenti poi, ho capito che era venuto il momento di darci un taglio netto. Meditavo di farlo nell’anniversario dell’iscrizione, ma l’ennesima notizia di supporto dell’antisemitismo (da parte di Elon Musk nella gestione di X) mi ha spinto ad agire e a non più procrastinare.

Per anni Twitter è stata la mia piattaforma preferita. Twittavo invece di bloggare. Era più semplice, immediato, divertente. Nel periodo d’oro bastavano pochi minuti, se non secondi, prima che qualcuno reagisse a un mio contenuto, condividendolo, commentandolo, rispondendo, apprezzando. In ogni momento della giornata in cui sentivo il bisogno inconscio di un po’ di dopamina, mi bastava aprire Twitter, prima sul desktop, poi sullo smartphone, e il bisogno era subito soddisfatto. Ovviamente più partecipavo, più aumentavano le interazioni, più aumentavano i follower, più crescevano le opportunità, anche di lavoro. Per anni sono stato invitato a eventi, spesso pagato, per condividere liberamente ciò a cui assistevo. Un canale di informazione senza filtri, a libero accesso. Un’agenzia di stampa personalizzata a cui davo consapevolmente il mio contributo. A un evento privato a Barcellona ho perfino salutato Jack Dorsey, quando era presidente di Twitter e nessuno lo calcolava (non a quella festa almeno). Twitter era la mia casa. Non per niente ho continuato a usarlo attivamente, almeno fino al 2019, quando avevo già deciso di prendere le distanze da Meta, Facebook e i suoi fratelli, oltre a qualsiasi altra piattaforma social. Ho sempre considerato Twitter un fratello diverso: una piazza digitale dove filtrare le notizie dalle fonti più interessanti, partecipando a condividere informazioni ed esperienze. All’inizio era quasi un gioco, a cui partecipavano soltanto i blogger, poi col tempo è arrivata la massa, la politica, le aziende, i giornalisti, la pubblicità.

Twitter non è mai decollato in Italia. I numeri sono sempre stati molto più bassi rispetto al pubblico di Facebook, Instagram, poi tiktok e altri. Ciò non ha impedito però ai media e agli addetti al lavori di partecipare in massa e far rimbalzare fuori da Twitter notizie, polemiche di cortile e tutto quanto potesse essere funzionale a creare dibattito e a raccogliere l’attenzione del pubblico della rete e non solo. Il dibattito è presto diventato tossico, prima ancora che arrivasse Elon Musk. Sì, potevi evitare di seguire e conoscere certi personaggi e certi argomenti, ma i temi di tendenza ti avrebbero comunque ricordato (e incentivato a dire la tua) la polemica del giorno. C’è chi si è creato il suo circoletto, la sua piccola grande bolla, seguendo e interagendo con una community nella community. Molti di questi utenti continuano e continueranno a usare X imperterriti, almeno fino a quando X attiverà un abbonamento anche soltanto per partecipare (notizia/minaccia del padre padrone, tutta da verificare nell’attuazione).

Twitter, lo scriveva l’anno scorso il Financial Times, non è una piazza pubblica, ma un teatro. Un palco:

The truth is that Twitter is not the town square; it’s the theatre. What is said on the platform is not “The Discourse”; it’s a performance, in which everyone has carefully rehearsed their 280-character lines, is aware that they are being watched and is playing to their crowd. Performers jostle for the mic, which they are given via retweets or likes when they say something suitably outrageous or funny or consensus-pleasing. Audience members, in turn, can heckle and interact with the performers and are sometimes even given the mic themselves when someone prominent decides to retweet them. A kind of dystopian and frenzied open-mic night, if you like.**

La verità è che Twitter non è la piazza del paese; è il teatro. Ciò che viene detto sulla piattaforma non è “Il Discorso”; è una performance, in cui tutti hanno accuratamente provato le loro battute da 280 caratteri, sono consapevoli di essere osservati e si stanno esibendo per il proprio pubblico. I performer si contendono il microfono, che ottengono tramite retweet o Mi Piace quando dicono qualcosa di sufficientemente scioccante, divertente o gradito dalla maggioranza. Gli spettatori, a loro volta, possono contestare e interagire con i performer e a volte possono anche ottenere il microfono quando qualcuno di importante decide di retwittarli. Una sorta di serata di open mic distopica e frenetica, se vogliamo.

Twitter isn’t the town square, it’s the theatre

Non usare il profilo, né per condividere, né per leggere notizie, rende indolore la sua disattivazione. Sì, perdo un posizionamento e un potenziale dato dai miei 50.000 follower, ma non pubblicando più, l’algoritmo stesso di Twitter ha ridotto la visibilità dei miei contenuti. Un correre sulla ruota del criceto inutile e dannoso. Non ho bisogno di più notizie, più visibilità, più tempo online, ma il contrario. Le fonti dirette a cui accedo via feed RSS (newsletter incluse, quando possibile) pubblicano già più contenuti di quanti io riesca e voglia consumare. La visibilità online, per la mia sfera professionale, certamente è necessaria, ma non mi sento di perseguirla su quella piattaforma, non più. Il tempo che passo online è fin troppo, rispetto a quanto considero sano, e continuo a scrivere e condividere privatamente, sul mio journal, sul mio blog, con i miei amici con la messaggistica istantanea, quando ne sento il bisogno.

A questo punto non ho più profili social e posso dire finalmente che i social media, almeno intesi come piattaforme centralizzate, per me non esistono. Ho tagliato l’ultimo ponte e ne sono felice. Non ho bisogno di seguire/spiare i miei amici online, perché posso chiedere loro come stanno e come si sentono senza farlo in pubblico (e viceversa, ovviamente). Posso condividere le mie idee e i miei pensieri su uno spazio mio, cosa che faccio ormai da 20 anni e rotti. Ho infinite fonti di informazione senza seguire i profili social di alcunché e per me la conoscenza condivisa non è sul social web, ma su libri ed eventualmente su video lunghi. Se voglio sapere qualcosa preferisco l’approfondimento e la profondità: niente contenuti snack, qualsiasi sia la forma. Tengo a coltivare la mia attenzione. Mi perdo qualcosa? Va benissimo. Tutti ci perdiamo qualcosa: non possiamo essere ovunque e non possiamo bere da un’idrante.


**Fino a qui ho inteso la mia presenza sul social web, conclusa, riferendomi alle piattaforme centralizzate e che hanno come modello di business lo sfruttamento dei dati degli utenti per vendere pubblicità e influenzarne il comportamento. Ho ancora un paio di profili su Mastodon, equivalente federato e decentrato di Twitter, gestito dagli utenti stessi. Mi astengo dal segnalare dove perché di fatto non sono attivo in entrambi gli spazi dove ho un profilo. Ho perso interesse nella distribuzione dei miei contenuti attraverso la pubblicazione su spazi terzi, qualsiasi essi siano. Non ne sento la necessità, almeno ora, e preferisco condividere su spazi che controllo totalmente. Domani si vedrà.

Non sarebbe necessario scriverlo, ma siccome so che qualcuno tra chi legge si sentirà attaccato nella propria scelta di usare X o qualsiasi altra piattaforma social centralizzata (e non), ci tengo a precisare che non giudico le scelte altrui e, come per la mia scelta vegana/vegetariana, tutto quanto scritto vale per me e solo per me. Tu (e chiunque altro) sei libero di fare le tue scelte, che rispetto, e io le mie. Ognuno è responsabile delle proprie scelte e delle conseguenze che queste scelte generano. Niente altro.

**Traduzione Jetpack AI

Una risposta

  1. Anch’io come te sono fuori da ogni social mainstream. Come te ho un account e una mia istanza Mastodon che manterrò attiva finché lo spirito del progetto rimarrà inalterato (amo le soluzioni che riportano il controllo dei dati nella società).
    Condivido a pieno l’idea secondo cui sia impossibile essere ovunque ed essere informati su tutto pertanto non ho l’ansia di perdermi qualcosa (per dire, non ho neanche Whatsapp e la gente mi chiede come faccia a sopravvivere senza le eventuali informazioni per i genitori delle chat della scuola).
    Indipendentemente dal loro grado di tossicità quest’ultima preoccupazione è una delle leve principali su cui fanno affidamento tutte le piattaforme: vuoi correre il rischio di non sapere ed essere giù dal treno?
    Si vive benissimo giù dal… trend!
    Ciao,
    Emanuele

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